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Il ragazzo fagotto

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IL RAGAZZO FAGOTTO


Otto luglio 2005, ore sei e trenta.
Suona la sveglia, Marco si affretta a spegnerla e si crogiola ancora qualche minuto nel letto, distendendo piacevolmente le gambe.
“Finalmente oggi finisco, fatti gli orali, addio maturità! Sarò un uomo libero”
Ma è un pensiero che dura solo un momento e subito l’ansia per gli esami gli secca la gola. L’immediata esigenza di bere lo induce ad alzarsi e a recarsi in cucina, dove trova la madre intenta a preparare la colazione.
Apre il frigorifero e lei con l’indifferenza abituale che manifesta nei confronti del figlio, gli dice:
- Mi raccomando, Giulio, cerca di fare bene, altrimenti è meglio che non torni a casa; d’altra parte da domani saranno affari tuoi. -
Marco non le risponde neppure : era abituato a queste minacciose effusioni.
“Sì, da domani saranno affari miei, finalmente, grazie ai miei diciotto anni, andrò a vivere da solo! Non ne posso più di essere spedito come un pacco postale, da una casa all’altra, tra l’indifferenza più netta di mio padre e di mia madre, della compagna dell’uno e del compagno dell’altra.”
Questi pensieri tornano ad alleggerirgli l’ansia degli esami, così quasi con gioia va in bagno a
sbarbarsi e nel guardarsi allo specchio, egli che non si è mai piaciuto, si vede anche più bello: i suoi riccioli rossicci, i suoi occhi azzurri, la sua carnagione bianca che gli danno nell’insieme un tocco femmineo, gli appaiono seducenti, insomma si piace.
Così, compiaciuto, torna nella sua stanza per vestirsi, quando gli risuonano alla mente le parole della professoressa d’italiano,”mi raccomando, quando ci saranno gli esami, venite vestiti in modo decente perché, se è pur vero che l’abito non fa il monaco, l’abbigliamento adeguato è un modo per mostrare rispetto nei confronti della commissione esaminatrice”.
Così sceglie un jeans non bucato, una maglietta bianca, insomma un abbigliamento sportivo, ma serio.
“Una donna preparata, in gamba, in grado di essere anche maestra di vita e forse, se non fosse stato per lei….non so, non so, se ce l’avrei fatto a continuare!”
Vestitosi, non torna neppure a salutare sua madre che si trova ancora in cucina: non ne vale la pena. Esce di casa e mentre percorre il tragitto che lo separa da scuola, si sente in quel particolare stato d’animo che potrebbe dirsi sospeso, tipico delle anime penitenti del Purgatorio dantesco, diviso com’è tra la preoccupazione per gli esami, la gioia per la nuova, futura vita che lo attende e il passato che già ha vissuto. Ma mentre il futuro è per lui una pagina bianca da riempire, gli anni trascorsi della sua esistenza gli passano davanti agli occhi come diapositive che scorrono veloci:
liti convulse tra mamma e papà, vocii confusi, imprecazioni che trovavano il loro culmine in quel termine ba-star-do, che veniva sillabato quasi a caricarne il significato, quasi a dare a quella parola tutto il peso che meritava, mentre occhiate feroci scendevano su di lui, fragile e indifeso, che con grande senso di colpa, anche se ignaro di quale, nell’incomprensibile significato di quella parola, si nascondeva dietro le porte,sotto il tavolo, insomma dove poteva, desideroso in quei momenti solo di annullarsi, di scomparire o magari di trasformarsi nel suo orsacchiotto che tranquillo se ne stava lì, sull’angolo del divano .
Gli sembra d’impazzire perché adesso come allora sente rompersi i timpani a quei rumori, a quelle grida, ma poi al frastuono succedeva il silenzio, restava solo quell’incomprensibile senso di colpa,
pesante come un macigno reso ancora più pesante dall’indifferenza e forse anche dal disprezzo in cui entrambi lo abbandonavano.
“Certo, io sono frutto di una violenza, di uno stupro subito da mia madre, di un tradimento, di un terribile qualcosa che mi rende inviso ad entrambi; non so e forse non lo saprò mai! Eppure, adesso che andrò ad abitare da solo, adesso che non sarò più sgradito pacco postale, ma uomo autonomo, libero in tutti i sensi, anche economicamente, grazie alla rendita che insieme alla casa mi ha lasciato sempre quella buon’anima di mia nonna, cercherò il mio vero padre, voglio capire perché mi circonda questo disprezzo. Un cane di solito è trattato meglio di me”.
Mentre è immerso in tali pensieri, gli viene da piangere e ridere contemporaneamente, continuando a ricordare come dopo il divorzio dei suoi genitori,ogni mese, fatto fagotto ed egli stesso fagotto, ha cambiato casa.
Che indifferenza! Lo accompagnavano e lo scaricavano, sollevandosi da un peso fastidioso; talvolta restava anche dietro la porta chiusa perché nessuno era in casa ad aspettarlo e poi lo attendevano altre parole infastidite, mentre gli si additava l’angolo della stanza o lo sgabuzzino in cui si sarebbe dovuto sistemare. Tuttavia cresceva, ma cresceva male perché capiva di essere un peso, una cosa più che una persona, che sarebbe stato meglio che non ci fosse mai stata.
Spesso somatizzava la solitudine e l’indifferenza che lo circondava e si ammalava con facilità: influenze, mal di pancia, terribili mal di testa lo affliggevano frequentemente, creando ulteriore fastidio a chi l’ospitava; in quei periodi non andava neppure a scuola, inficiando ulteriormente il suo mediocre profitto e soprattutto continuava a non interagire con i suoi compagni, già continuava, perché di fatto neanche quando andava a scuola parlava con loro.
Chiuso com’era nelle sue angosce e nei suoi problemi, anche durante la ricreazione restava solo, rannicchiato sulla sua sedia, escluso da qualsiasi rapporto umano; d’altra parte perché uscire se non aveva neanche i soldi per comprare la colazione?
L’apparire in lontananza della scuola, riporta alla sua immaginazione la figura della sua insegnante d’italiano e un sorriso sfiora le sue labbra, mentre affettuosi pensieri gli attraversano la mente.
”Cara prof, sei qui, ti vedo! I tuoi capelli brizzolati, i tuoi occhi buoni, il tuo sorriso che si trasformava in invito, ogni qualvolta alle undici ti trovavi in classe:- Su, Marco, ti posso offrire un caffè?-
Immerso in tale gradevole pensiero, Marco giunge a scuola e, strano a dirsi, non pensa più agli esami, alla prossima libertà che lo attende, in fondo c’è qualcuno che vuole bene anche a lui e questo gli basta per sentirsi uomo.




Francesca Luzzio

 giuliano - 21/08/2010 20:11:00 [ leggi altri commenti di giuliano » ]

Bello. C’è sempre qualcuno che ci vuole bene, e non è detto che sia chi ci si immagina.

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